giovedì 27 settembre 2012

...e buona caccia

Ogni anno, puntuale, torna la stagione di caccia. Ogni anno, da quando sono piccola, vedo il servizio che alla TV svizzera dedicano a questo tema. Le solite immagini di cacciatori appostati nei boschi o in montagna, con l'occhio sul mirino del loro fucile, e nel mirino un ignaro animale che tranquillo sta vivendo la propria giornata come sempre. E poi le immancabili scene di un cervo abbattuto, steso per terra o nel capiente bagagliaio di un fuoristrada, maestoso anche nella morte, perché la sua bellezza, quella, non hanno potuto togliergliela.
In concomitanza compaiono nei ristoranti e  nei negozi prodotti tipici a base di selvaggina, che fanno tanto autunno, con il disegnino dei malcapitati animali impresso sulle confezioni. Paté, salami, filetti, un tripudio di specialità di stagione tanto gourmet.
Sempre in TV non manca il solito dibattito tra cacciatori e animalisti, eterna discussione che sento da sempre.
L'associazione dei cacciatori punta sempre di più a porsi come "regolatori della selvaggina". Già il chiamare le vittime della caccia col generico nome di selvaggina a me ha sempre dato da pensare. E' come la parola bestiame, non trovate? Termini che in fondo riducono gli animali ad una massa indistinta di "capi", sacrificabili perché indistinti, privati nella concezione comune di personalità e emozioni proprie.
A parte questo, non capisco quale diritto abbiamo di farci "regolatori di selvaggina", o di qualsiasi altra specie animale del resto. Il mondo non è solo nostro, non siamo gli unici abitanti di questo pianeta, e forse dovremmo finalmente imparare a convivere pacificamente, oltre che tra noi, con le altre specie, e non agire nei loro riguardi sempre e solo mossi dal nostro punto di vista e dai nostri interessi materiali.
Posso capire che alcuni animali, tipo i cinghiali, producono effettivamente parecchi danni con le loro scorribande, e che ciò non sia piacevole. Anche a me girerebbero le scatole. Ma non mi metterei mai a sparargli addosso. Devono esistere soluzioni non violente.

Ho qui sotto gli occhi una pagina di giornale che ho ritagliato l'anno scorso di questi tempi, e che riporta l'intervista ad un cacciatore ticinese.
Il quale afferma per esempio:
"Direi che esiste un modo di praticare la caccia autentico e originario. Faccio un esempio: un conto è andare a sparare a cento metri dalla strada, un altro è farsi 1.500 metri di dislivello, prendere un animale e portarselo in spalla fino al piano. Capisco bene che chi non è nato in montagna può anche non capire e conoscere questo modo di vivere la caccia".

E poi:
"Come per la maggioranza delle passioni, la caccia è una questione molto personale. Solo provando a viverla puoi capire veramente cos'è. Per quanto mi concerne, è profondamente legata al rapporto che ho con la montagna e la natura. Direi addirittura che andare a caccia mi fa bene, non ho timori a dirlo apertamente, e questo non tanto per l'aspetto istintivo(...). Il punto essenziale per me è piuttosto quello primordiale legato alle nostre origini, lo stare in mezzo alla natura, che mi obbliga a sviluppare i miei sensi, muovermi con cautela e imparare a conoscere gli animali. In definitiva, la caccia è parte integrante  del mio appartenere alla montagna."

E:
"Noi tutti abbiamo nel nostro animo un istinto predatorio. In passato, quando si andava a caccia per sussistenza, questo si manifestava apertamente, oggi meno, però occorre essere coscienti che è una cosa che riguarda tutti. (...) Vorrei però rendere attenti a una cosa: in genere le prede vengono uccise immediatamente, dopo che hanno vissuto in libertà. E' molto peggio quanto si fa oggi per la produzione di carne in grandi quantità in allevamenti deleteri. (...) Un cacciatore coscienzioso sa abbattere un animale in modo indolore, può comunque capitare di sbagliare, è capitato anche a me. Si cerca però sempre di rendere il passaggio tra la vita e la morte immediato".

Io con i cacciatori sono intollerante, lo ammetto, e non me ne vergogno. Mi fa ridere sentire che la caccia è un modo di stare nella natura e di conoscere gli animali. Conoscere gli animali dovrebbe equivalere a rispettarli. Strappare loro la vita con un colpo di fucile non mi sembra esattamente un atto d'amore né verso di loro né verso la natura. Che quegli animali fino a quel momento abbiano vissuto liberi e presumo felici in un bosco o in montagna, a differenza dei disgraziati animali allevati per l'industria della carne, non mi pare un'attenuante. Sempre ammazzati sono stati, sempre destinati all'industria alimentare sono. Avrebbero potuto continuare la loro esistenza ancora a lungo, e invece, in modo arbitrario, gli è stato negato.
Probabilmente questo cacciatore era in buona fede e crede in ciò che ha dichiarato, ma a me le sue parole suonano tanto come luoghi comuni: l'uomo pervaso da un istinto predatorio mai sopito, che io però non ho mai sperimentato, né, mi sembra, parecchie persone di mia conoscenza, che mai sparerebbero ad un animale indifeso, e poi il binomio cacciatore natura, in cui il cacciatore è parte regolatrice appunto della natura e parte di essa, lui che si è inerpicato per sentieri impervi, solo, e  magnanimo toglie la vita, sì, ma in modo indolore.
E, ultimo ma non ultimo, il concetto di caccia come passione, e quindi come hobby, come sport. Io credo che una passione non possa più definirsi sana nel momento in cui vai a nuocere a qualcun'altro.
Ma probabilmente io sono solo una di quegli animalisti sentimentali che non capiscono la nobile arte venatoria.





domenica 23 settembre 2012

Non lasciarmi

Nella mia strada, a pochi passi dal mio portone, c'è una clinica veterinaria. Qualche tempo fa passandoci davanti ho ascoltato stralci di una telefonata che una giovane donna stava facendo al cellulare, con suo padre. Gli stava comunicando le condizioni di un animale, io ho pensato che si trattasse di un cane, ma poteva benissimo essere un gatto o un coniglio, o altro ancora.
Poco dopo sono ripassata da lì, dopo aver preso in casa due cose che mi servivano, e la ragazza era ancora fuori dalla clinica, sempre al telefono, ma adesso piangeva, e diceva a suo padre che era meglio prendere quella decisione, che ormai la situazione era troppo grave e dolorosa.
Le sue lacrime, la sua voce spezzata, mi hanno riportato alla mente una scena analoga cui ho assistito alcuni anni fa presso lo studio veterinario in Svizzera dove da sempre portiamo i nostri animaletti. Quella volta nella sala d'aspetto con noi c'era una signora sui sessant'anni, e in grembo teneva un trasportino di vimini con all'interno un gatto minuto (io pensai che potesse essere una gattina), che se stava tranquillo, forse troppo.
Dopo le vaccinazioni al nostro gatto io e mia mamma siamo uscite dalla sala di visita e abbiamo rivisto la signora, che era stata chiamata poco prima di noi nell'altra stanza.
Il trasportino era vuoto, e lei piangeva, stringendolo tra le braccia.

Gli animali che vivono con noi sono parte della nostra vita, sono componenti della nostra famiglia, e il legame che si crea tra noi e loro è spesso fortissimo, un vero punto fermo della nostra esistenza. La loro morte ci porta via il loro affetto, i piccoli grandi guai che ci facevano arrabbiare ma che ci mancheranno tanto, le abitudini che avevamo preso stando con loro.
Se penso alla mia esperienza, posso dire che ogni animale che ha vissuto con me ha lasciato un vuoto. Ognuno di loro è stato unico e irripetibile, e per tutti ho pianto. Alcuni se ne sono andati dolcemente, addormentandosi, e allora è più facile. Altri, soprattutto i porcellini d'India, sono morti in seguito a patologie che hanno causato un'agonia cui spero di non assistere più. Anche per questo per il coniglio Puskin abbiamo preso la decisione dell'eutanasia, dopo che era stato gravemente colpito da una malattia neurologica che interferiva in modo pesante con ogni attività che lui volesse svolgere.

Quando sono a casa in Svizzera Hitch viene sempre a dormire con me. Ad un certo punto della notte poi va a reclamare crocchette da mia mamma (anche se magari ne ha ancora nel piattino, niente, lui deve andare da lei e farsi accompagnare a mangiare), poi si mette sulla poltrona nella mia camera e dorme finché non ci alziamo. Guardandolo avvoltolato sulla poltrona (tra l'altro sempre piena di pelo bianco e semi distrutta un po' da lui un po' dai gerbilli che a suo tempo si crearono dei buchi sotto la seduta per infilarsi lì a dormire), ultimamente penso a volte che il nostro bambino peloso ha quindici anni, e che quel momento si avvicina inesorabile. Il Tempo che scivola via un giorno se lo porterà via con sé. E penso allora, non lasciarmi Hitch, e neanche tu, gamaldo Freud, miei carissimi amici pelosi.
Ma so che un giorno dovrò affrontare il distacco da loro, e che dovrò accettarlo. Che ci saranno di certo altri mici, cani, spero, e tanti altri piccoli animali come il mio criceto Clint, e che con ognuno sarà una storia diversa che varrà la pena di vivere.
Portando sempre nei ricordi tutto l'affetto e i tanti momenti vissuti con coloro che non ci sono più, almeno fisicamente, ma che forse continuano ad esistere in un altro modo (vedi il mio post Un amore di Qui e d'Altrove).

Una volta il nostro veterinario, un uomo pratico, poco incline al sentimentalismo, ma secondo me pieno di umanità e saggezza, che certamente fa sempre tutto quanto in suo potere per aiutare i suoi piccoli pazienti, ci disse: "Non è importante quanto un animale vive, ma quanto amore ci dà, e quanto gliene diamo noi".
Non ho mai dimenticato quelle parole, e penso che siano molto vere. Dobbiamo accettare che il tempo su questa terra degli animali domestici sia limitato rispetto al nostro, e cercare di vivere al massimo gli anni concessi, riempiendoli di momenti felici che resteranno nel nostro ricordo per sempre e che ci faranno affiorare un sorriso nei tempi a venire, insieme alla certezza di avere garantito loro un'esistenza serena.

Hitchie in versione "mammone senza ritegno" con mia (sua) mamma





sabato 15 settembre 2012

Un volo al crepuscolo

Quest'estate, ogni sera alla stessa ora, un pipistrello volava rapido davanti alla terrazza, una piccola leggera silhouette che si stagliava appena sul buio della notte, e dopo agili evoluzioni scompariva nelle tenebre.
Strani, misteriosi animali, vere creature della notte, ammantati di superstizione ma anche di fascino, e ultimamente rivalutati e fatti conoscere oltre le idee stereotipate dell'immaginario collettivo.

 Anni fa, un mattino, sotto al divano trovammo un minuscolo pipistrello. Era entrato la sera prima, evidentemente, senza che ce ne accorgessimo, e ora se ne stava avvolto nelle sue ali nere sotto al divano.
Decidemmo di tenerlo in casa fino a sera. Andai a prendere in cantina una gabbia per roditori che al momento era vuota, e sistemammo lì il piccoletto. Era così minuto che stava comodamente nel palmo di una mano.
Il suo minuscolo perfetto faccino aveva un che di vampiresco che deliziava il mio gusto gotico. Era come un gargoyle in miniatura.
Lo tenemmo d'occhio per tutto il giorno, un po' preoccupati di vederlo sempre nel suo angolino, stretto nelle sue ali. In realtà da buon animale notturno stava solo dormendo, immagino anche contrariato di trovarsi in un posto sconosciuto con degli umani che gli stavano con il fiato sul collo.
Dopo cena, mentre scendeva la sera, io e mia mamma lo portammo sul balcone della mia camera. Lei lo prese in mano e lo appoggiò con delicatezza sul parapetto. Il pipistrellino restò un attimo immobile, poi mosse il suo capino da una parte e dall'altra, come per saggiare le tenebre che scendevano. Aprì le ali, le sue grandi splendide ali nere di piccolo vampiro, che lo fecero diventare almeno il doppio.
E spiccò il volo. Lo guardai volare sul giardino, sfiorare i rami del castagno e sparire nel crepuscolo che cedeva il passo al buio.
Io e mia mamma ci guardammo con un sorriso, felici di avere riconsegnato il piccolo alla notte e alla libertà.