giovedì 22 dicembre 2011

A Polly per il suo compleanno

Approfittando del suo compleanno, voglio parlare di un altro animale che attualmente popola la mia vita.
Diciamo che visto da lontano, magari al crepuscolo, potrebbe farvi l'impressione di essere il mastino dei Baskerville, avete presente, quel grosso cane nero di un episodio di Sherlock Holmes, che si aggirava sinistro nella brughiera ad ammazzare la gente?
Ecco, intravedere Polly in lontananza, tra le ombre della sera, potrebbe suscitare qualche brivido lungo la schiena. Ma non appena vi giungesse abbastanza vicino da poter guardare nei suoi miti occhi nocciola, bé, anche il minimo timore svanirebbe come neve al sole. Quando poi vi ritrovaste a stringere la sua grossa zampa nera, che sicuramente vi porgerebbe in segno di amicizia, avreste la certezza di essere di fronte ad un animale di grande gentilezza.
Questo è il minimo che si possa dire di lei, Polly, una femmina di Terranova nera come la pece, con la quale condivido ogni mio giorno lavorativo, anche se lei sta fuori nel cortile. Ogni tanto per la verità si intrufola nello studio, o almeno butta dentro un'occhiata dopo aver spinto la porta con il suo massiccio muso. Oppure ci fissa attraverso il vetro, finché non le allungo un pezzo di pane secco, sua grande passione, o qualche biscotto o crostino. La maggior parte del tempo comunque se ne sta sulla sua branda abbandonandosi a lunghi pisolini.
Qualche volta la porto a passeggio io, e i primi metri sono una specie di sci nautico, nel senso che lei parte a razzo e io dietro quasi a corsa a quella specie di orso cittadino. Ben presto però, dopo l'entusiasmo iniziale, rallenta il passo e sulla strada del ritorno sono io a doverla spronare. La sua età dopotutto si fa sentire. Benché da tutti sia considerata un'eterna cucciolona, Polly compie oggi dodici anni.
A parte qualche tremolio alle zampe posteriori e qualche pelo bianco sul muso, direi comunque che é ancora in grande forma.
Io la definisco, con affetto, ovviamente, il nostro cane abominevole. Non so se abbiate mai incontrato faccia a faccia un terranova. In quel caso capireste il perché di questo aggettivo. A parte la mole e il folto pelo nero, mai proprio pulito né profumato, sono dotati di una bava molto simile a quella di Alien, che naturalmente vi ritroverete sui vestiti con grande facilità, simile alla scia lasciata da un lumacone se siete fortunati, altrimenti sottoforma di filamenti quasi solidi nel peggiore dei casi.
Eppure, nelle mie passeggiate con Polly, mi è capitato qualche volta di incontrare persone  che mi hanno chiesto di poterla accarezzare, dicendo che il Terranova è il loro cane preferito, magari perché ne avevano avuto  o conosciuto uno in passato. E Polly naturalmente se ne sta lì ben felice a godersi le carezze. Una volta una mamma con un bambino di neanche un anno in braccio si è chinata entusiasta su di lei, in modo che il bimbo la vedesse meglio, assolutamente incurante della bava, sotto lo sguardo preoccupato della nonna.
In generale è un cane che spesso suscita almeno un sorriso nei passanti che lo incrociano.

Ho letto che molto tempo fa i pescatori dell'isola di Terranova si portavano uno di questi cani quando uscivano a pesca d'inverno nel loro gelido mare, perché se qualcuno fosse caduto in acqua solo il terranova avrebbe potuto salvarlo, gettandosi senza conseguenze nelle acque del nord, protetto dal suo pelo impermeabile. E ancora oggi sono cani utilizzati per il soccorso in mare, essendo ottimi nuotatori.
La nostra Polly è un cane di città, e questo un po' mi dispiace. Sicuramente in campagna starebbe meglio... Ma credo che sia contenta della sua vita insieme a noi, dopotutto.
Malgrado i suoi difetti "fisiologici", che mi fanno dire ogni tanto al suo padrone :"Ma un bel cane a pelo raso no? O un chihuahua?", le voglio molto bene.
Amo la sua gentilezza, la sua estrema bontà, la certezza che mai si rivolterebbe contro qualcuno (è una grande amica del postino e persino al veterinario porge la zampa), e mi piace quando mi si mette vicino e appoggia una zampotta sulla mia scarpa, e ce ne stiamo lì per un po' fianco a fianco a guardare dal cancello gli avvenimenti del cortile.
Tanti auguri cara Polly, mio carissimo cane abominevole.

Polly il cane abominevole al parco

mercoledì 21 dicembre 2011

Un Natale anche per loro

Ci siamo quasi, tra pochi giorni sarà di nuovo Natale. E come ogni anno, in TV, tra alberi addobbati e lustrini, imperversano immagini di tavole imbandite, e di allegri cuochi e rinomati chef che mostrano le loro creazioni. E poi le trasmissioni di intrattenimento e i telegiornali dedicheranno servizi ai vari pranzi e cenoni, dove non mancheranno i grandi classici, in un tripudio di cotechino, zampone, anguille in umido, tacchini, e via dicendo, nella ricetta tradizionale oppure rivisitata.
E poi sono certa di rivedere presto scene di mercati in cui la gente va a fare la spesa per i giorni di festa, dove si vendono allegramente pesci e crostacei vivi, strappati al loro mondo sottomarino per finire in una tinozza su una bancarella, fino al momento della consegna ai clienti, che in queste sfortunate creature del mare non vedono altro che una parte del loro pranzo natalizio.
Lo scorso anno stavo appunto vedendo una scena del genere in televisione, e mi sono chiesta ancora una volta come sia possibile questa indifferenza, questo commercio noncurante di esseri viventi. Come sia possibile accettarlo e consumarlo come un semplice dato di fatto.
Stessa cosa naturalmente per tutti gli altri animali uccisi anche in questo periodo per finire sulla nostra tavola della feste. Ricordo ad esempio un rinomato chef che spiegava come cuocere una testa di bovino per una carrellata di bolliti.
"Bisogna lasciarle il tempo di cuocere, questi sono animali di cinque anni" diceva.
Non è orribile disporre con tanta noncurante arroganza della vita di esseri viventi?

Ancora di più a Natale, che dovrebbe essere un momento di particolare amore e fratellanza, una giornata in cui riscoprire la propria umanità, o almeno così si dice.
Eppure neanche in questi giorni si rinuncia a mangiare i corpi di creature innocenti ammazzate per finire nei nostri piatti. Di nuovo, l'ombra e l'abitudine della tradizione incombono su di noi, e scegliere di non mangiare carne pare ai più inconcepibile. Ma come, delle Feste senza zampone o cotechino?
 Da inguaribile sognatrice quale sono, a me piace invece immaginare un periodo natalizio vegetariano, dove agli animali vengono riservate carezze e amicizia, anziché la morte. Non farebbe parte questa scelta di quello spirito del Natale di cui tanto si parla ma che resta sempre effimero? E poi sarebbe un bel modo per entrare nell'anno nuovo e per cominciare a ripensare al nostro rapporto con gli animali e a vergognarci finalmente del modo in cui trattiamo la maggior parte di loro.
Un Natale anche per gli animali.
Un Natale in cui viene dare loro qualche piccola leccornia, invece che ammazzarli e far diventare loro la presunta prelibatezza. 
Un Natale in cui adottare un cane, un gatto, o qualsiasi altro animale, e non per abbandonarlo in estate, ma per iniziare un cammino insieme, per tutti i giorni della sua vita.
Un Natale in cui dedicare almeno un pensiero a tutti gli animali sfruttati e rinchiusi.
Un Natale per guardare nella nostra anima alla ricerca di un sentimento di compassione capace di estendersi a tutte le specie.
Concludo con le parole di una grande poetessa, parole che ho sempre amato e che mi sembrano, spero al di là di ogni retorica, un ottimo augurio di condotta per un nuovo anno che sta per cominciare:

                                              Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi
                                                            non avrò vissuto invano
                                                      Se allevierò il dolore di una vita
                                                               o guarirò una pena
                                                      o aiuterò un pettirosso caduto
                                                               a rientrare nel nido
                                                           non avrò vissuto invano
            
                                                                 (Emily Dickinson)


  
Buon Natale a tutti 

domenica 18 dicembre 2011

La storia di Leo Freud

Non ricordo esattamente quando Leo comparve per la prima volta nel nostro giardino. Suppergiù sei o sette anni fa. Lo rivedo rotolarsi nell'erba, con il suo corpo magrolino, dal pelo marrone striato di nero. Fu quello il mio primo incontro con il gatto dei nuovi vicini, che si erano da poco stabiliti nella casa nuova in fondo alla nostra via. Non conoscevo ancora il vero nome di quel piccolo nuovo arrivato, ma sapevo che il suo padrone era uno psichiatra. Così per me il gatto divenne Freud, e tutti cominciammo a chiamarlo così. Soltanto più tardi, dopo aver conosciuto i suoi padroni, appresi che il suo nome ufficiale era Leo.
Fro (come lo chiamo spesso) è un gatto magretto, specie d'estate, dall'andatura leggermente sbilenca, non si sa perché, e lo sguardo da gufo. A qualsiasi ora uno esca o rientri da casa, spesso se lo trova in giro, spuntato da chissà dove. Nessuna intemperia sembra avere effetto su di lui e sul suo vagabondare tra casa sua e la nostra. Qualche anno fa mia mamma lo vide davanti alla portafinestra, nel turbinio della neve, che con la sua tipica aria da povero gatto senza dimora (ha una casa bellissima e i suoi padroni lo adorano) guardava dentro, mentre intorno a lui il vento gelido e turbinante di fiocchi fischiava nel buio. Così mia mamma, pur non avendo una grande simpatia per lui, per ragioni che vedremo tra poco, lo fece entrare, gli diede qualcosa da mangiare e lo mise fuori dalla porta d'ingresso, depositandolo sullo zerbino  :)
Oppure ricordo una volta, d'estate, che guardando dalla finestra vidi Fro in cima ad una siepe, che in un modo o nell'altro riusciva a non sprofondare nel mezzo, con il mio gatto che lo osservava da sotto con aria di sufficienza.
E poi tutte le volte che riesce ad infilarsi in casa nostra, approfittando con una rapidità sconcertante di una porta lasciata socchiusa per un momento, e via, veloce come la luce su per le scale, diretto al piattino delle crocchette che c'è al piano di sopra. E dopo aver spazzato anche le briciole eccolo appallottolarsi su un letto, o sotto ad un piumone, dove lo si scopre anche dopo ore, magari grazie alla coda che spunta fuori.
Riccioli d'Oro, la bambina che, mentre i tre orsi erano fuori, si installava in casa loro e faceva tutti i suoi comodi, era niente rispetto a Fro. Che, oltre a mangiare e dormire a sbafo, ci ha anche spesso omaggiati di quei fantastici spruzzini che i gatti usano per marcare il territorio, rovinando la stufa e gli stipiti della portafinestra, e addirittura una parete della casa dei Playmobil che tengo ancora sopra un armadio dove lui si sarà arrampicato.
E non dimentichiamo gli agguati alle gambe nude, d'estate, attacchi improvvisi sferrati contemporaneamente sia con la bocca che con gli artigli sguainati di una zampa, così che ci si ritrova due bei graffi sanguinanti poco sopra la caviglia. E subito dopo ecco Fro rotolarsi innocente a pochi passi, tutto ronfante.
C'é da dire che avanzando con l'età questo aspetto é migliorato, ma rimane sempre un animale infido. Per quanto sia capace, allo stesso tempo, di appallottolarsi nella mia ombra, o sotto alla mia sedia sdraio, o sulle mie ginocchia mentre leggo un libro nei pomeriggi estivi, e rimanere con me a lungo, senza muoversi.
E poi quando, ai miei rientri da Milano, lo rivedo dopo diversi giorni, lui mi corre incontro e si strofina sulle mie gambe.
Malgrado i suoi raptus e la sua irrequietezza, voglio molto bene a Freud. Amo il suo spirito libero e indomito, la quintessenza della gattitudine. Dopo il mio gatto, il mio adorato Hitchocock, che è molto più una buona pasta, nel mio cuore c'é Fro.
Freud, che, giovanissimo micio, stava in un rifugio per animali vicino a Bellinzona, in Ticino, e che ogni notte riusciva ad evadere dal suo recinto e poi dalle mura della struttura, con spericolate acrobazie, per starsene in giro fino all'alba, e poi alle prime luci del mattino si faceva trovare davanti al portone, affamato.
E, se lo psichiatra e sua moglie non lo avessero adottato, sarebbe probabilmente stato soppresso per questa sua abitudine, così mi hanno raccontato.
Sono felice che il suo destino sia stato diverso, e che sia entrato nella mia vita, il mio piccolo gamaldo Fro.
Freud nella sua veste di mendicante fuori dalla portafinestra

lunedì 12 dicembre 2011

The Animal-lover's Book of Beastly Murder, racconti inquietanti di animali

Voglio segnalarvi una raccolta di racconti scritti nel 1975 dalla grande Patricia Highsmith, una scrittrice che personalmente amo molto, maestra nel tessere storie inquietanti, dove, nella normalità del quotidiano, si insinua improvvisamente qualcosa di inaspettato che intrappola i protagonisti in strane tele di ragno.
I tredici racconti di Delitti Bestiali (titolo che potrebbe essere fuorviante, mi sembra che l'originale inglese, The Animal-lover's Book of Beastly Murder, sia più appropriato) narrano le vicende di alcuni animali abituati al contatto con l'Uomo, e spesso vessati dai loro padroni o da persone a loro vicine, o ancora da pregiudizi diffusi (come avviene ad esempio per il topo più coraggioso di Venezia, del racconto omonimo, torturato da bambini crudeli, o per lo scarafaggio che ci racconta il suo punto di vista sulle persone che vivono intorno a lui, ai suoi occhi altrettanto orrende di quanto a noi possono apparire questi insetti).
Patricia Highsmith ci racconta queste storie attraverso i loro occhi e le loro emozioni, riuscendo perfettamente a mostrare tutta l'umanità di cui sono capaci gli animali, e, specularmente, tutta la bestialità che impregna l'Uomo.
Al lettore regala la soddisfazione di veder fare una direi meritata brutta fine a esponenti del genere umano decisamente abietti e spesso dediti al maltrattamento, espresso in varie forme, degli animali. Quegli stessi animali che si faranno strumento di vendetta nei loro confronti.


Buona lettura!

sabato 26 novembre 2011

La Chiesa e gli animali, quale compassione?

Come ricorderete lo scorso agosto il Papa si è recato a Madrid per le giornate della gioventù organizzate dalla Chiesa. Io credo che potrebbe essere importante se il Papa, in quanto capo di una religione con milioni di fedeli, spendesse qualche parola sulla questione animale. Soprattutto in un paese come la Spagna, in cui proliferano le crudeltà nei confronti degli animali, barbarie travestite come sempre da tradizioni e patrimonio culturale. Penso naturalmente al vergognoso "spettacolo" della corrida, e alle molte "feste" che in varie regioni spagnole coinvolgono animali, tori, ma non solo, sottoponendoli a orrende crudeltà.
O ancora, che dire delle condizioni dei cani nelle perreras, canili lager dove i randagi vengono sistematicamente soppressi dopo pochi giorni dal loro arrivo, o del miserevole destino dei galgos, i dolcissimi levrieri spagnoli, che spesso, soprattutto nelle regioni più remote della Spagna, una volta terminata la stagione di caccia vengono uccisi nei modi più orribili dai loro padroni?
Penso che il Papa, quale massimo esponente di una Chiesa che predica la fratellanza, la compassione e l'amore, o che dovrebbe farlo, avrebbe il dovere di parlare di tutto questo e cercare, per quanto possibile, di sensibilizzare la gente sulla sofferenza inflitta agli animali, cercando di piantare nel cuore dei giovani, e di tutti, il prezioso seme della zoofilia, che è certamente un aspetto dell'amore.
Per quanto mi riguarda, non sono assolutamente credente, ma apprezzerei un impegno in questo senso.
La Spagna sarebbe stato un luogo purtroppo perfetto per iniziare un discorso del genere. Naturalmente gli animali soffrono in ogni paese del mondo, subendo di continuo cose orribili, spesso, tra l'altro, in modo del tutto legale.
Come mai la Chiesa non spende una parola per condannare la vivisezione, gli allevamenti intensivi, l'abbandono e la crudeltà, fenomeni che coinvolgono milioni di animali? Non dovrebbero essere anche loro, nell'ottica cristiana, creature di Dio, come era per San Francesco, uno dei pochi santi zoofili?
La sacralità della vita predicata dalla Chiesa, com'è che si applica soltanto agli esseri umani? O ancora, che ne è del comandamento non uccidere, quando si parla degli animali?
Forse la risposta sta nella Genesi, quando si afferma che l'Uomo dominerà tutti gli altri esseri viventi.

(Dio) li benedisse con queste parole:
"Siate fecondi, diventate numerosi, popolate la terra.
Governatela, e dominate sui pesci del mare,
sugli uccelli del cielo
e su tutti gli animali
che si muovono sulla terra"

Genesi, I 28

E' in questo piccolo passaggio, probabilmente, che è da ricercare la scissione apparentemente insanabile tra umani e non umani, è da questa concezione antropocentrica che sono derivati i soprusi e le crudeltà inflitte per divertimento, o per ingordigia, o mascherate da necessità, o ancora per abitudine.
Per la Chiesa, ancora oggi, l'Uomo si pone nettamente al di sopra degli altri animali.
Sarebbe tempo di ripensare a questo modo di vedere le cose, per la Chiesa come per la società laica, e di incamminarsi sulla strada tracciata da Francesco d'Assisi, che includeva nel cerchio della compassione tutti gli animali, i nostri indifesi fratelli minori.


lunedì 21 novembre 2011

Di un mattino nebbioso e di topolini perduti

Questa mattina ero in treno di ritorno a Milano. La nebbia rendeva misteriosi i campi là fuori, dove lasciavo vagare il mio sguardo, affascinata da quel paesaggio indistinto.
Poi ho gettato un'occhiata ai fogli che la mia vicina stava leggendo. Inizialmente non ci ho badato più di tanto, era un resoconto, o un verbale, probabilmente di qualche società. Ma poi, dando un'altra occhiata (è vero, amo curiosare in quello che leggono i miei vicini di treno), ho visto che si trattava piuttosto di qualcosa che aveva a che fare con la medicina e, leggendo un altro po', con la sperimentazione animale.
Cosa che mi ha fatta sentire come se quella nebbia serpeggiante nella campagna mi si fosse stretta intorno al cuore. 
                                                  Animali utilizzati: 126
                                     Animali provenienti dallo stabulario  di...
                                               Descrizione manipolazioni
                                                    Interventi chirurgici
                                                       Inoculazione
                                               Metodo di soppressione
                                          Modello topo...(seguiva una sigla)
                                             Al quinto giorno verranno soppressi

Alcune delle parole che spiccavano crudeli da quelle pagine e che si sono arpionate nel mio cervello, a ricordarmi la terribile realtà della sperimentazione animale, che si consuma ogni giorno, ben lontana dai nostri occhi, sotto la guida di stimati professori, come la dottoressa che, a quanto leggevo, aveva condotto quell'esperimento. 
Quei piccoli topi, nati in uno stabulario (che brutta parola, anche questa) per essere trasferiti in un laboratorio dove essere sacrificati dopo "manipolazioni" e "inoculazioni", mi sono rimasti in mente a lungo. Anche ora ci penso, e so che si sono aggiunti per sempre a tutti quegli animali perduti che già popolano spesso i miei pensieri.





                                    

mercoledì 9 novembre 2011

Dell'abitudine alla noncuranza

Mi capita spesso di pensare alla noncuranza con cui conviviamo con lo sfruttamento degli animali. Come ho già avuto modo di scrivere, pare che sia qualcosa di ineluttabile, una di quelle cose che sono sempre state così, e dunque semplicemente normali.
Nella nostra società è normale trovare nei negozi di alimentari pezzi di corpi animali, confezionati nelle classiche vaschette bianche chiuse dal cellophane. Dalle fettine agli spiedini, ai corpi spellati e privati della testa di quelli che fino a poco tempo prima erano dei conigli, alle cosce di pollo, fino addirittura al fegato o al cervello magari di un vitellino. E poi naturalmente tutti i salumi, che non fanno impressione neanche un po', eccetto probabilmente la lingua, e che quindi si mangiano con ancor più noncuranza del resto della carne. E poi il banco del pesce, con tutti quei piccoli occhi tondi ormai ciechi, o i sacchetti di rete con le cozze ancora vive, nascoste nel loro guscio nero.
Fin da bambini, quando la mamma ci portava al supermercato, abbiamo imparato la noncuranza dalla noncuranza degli adulti intorno a noi. Soltanto crescendo, oppure grazie alla nostra sensibilità, alcuni di noi sentono che tutto ciò non è affatto normale, che una società che uccide sistematicamente degli esseri viventi per cibarsi della loro carne, esponendo sugli scaffali quelli che in definitiva sono pezzi di cadaveri, è una società con una forte componente di indifferenza e di crudeltà mascherata da abitudine o da tradizione. Una società profondamente specista.
Stesso discorso per gli abiti, le scarpe, e tutti i manufatti confezionati con la pelle degli animali, o con la loro pelliccia. Oggetti che sono praticamente ovunque, spesso considerati particolarmente pregiati, a cui siamo abituati fin da piccoli, e dunque che si travestono di normalità.
Occorrerebbe, secondo me, parlare ai bambini del modo in cui trattiamo gli animali, senza omettere neanche il più triste particolare. Soltanto così ci sarebbe forse una possibilità di costruire un mondo migliore per gli animali non umani. Solo facendo conoscere ai più piccoli quegli esseri che la maggior parte dei bambini incontra soltanto sotto forma di cibo, ci sarebbe la speranza che le nuove generazioni riescano a sviluppare una coscienza nuova e piano piano ad affermarla.
In quanto agli adulti, a coloro che nella noncuranza verso la sofferenza degli animali sono cresciuti preferendo non porsi mai troppe domande, non è troppo tardi per cominciare a guardare il mondo da un punto di vista un pochino diverso. Per alcuni può accadere in modo improvviso, dopo aver assistito ad un episodio che ha smosso qualcosa nella coscienza, o dopo aver appreso di qualche atrocità commessa in un allevamento, o in un macello. Per altri può essere un cammino più lungo e graduale. Io credo, per quella che è la mia esperienza diretta, che nella maggior parte delle persone vi sia una certa quantità di empatia e di compassione per gli animali, soltanto che sono sentimenti poco coltivati e soffocati spesso dalla noncuranza generalizzata. Solo lasciandoli emergere riusciremo ad affrancarci dal nostro specismo e a guardare agli animali con uno sguardo finalmente nuovo.

domenica 23 ottobre 2011

Pensiero per le creature del mare

Scrivo questo post anche ispirata da un articolo di Pietro del blog www.animalismoevegetarianesimo.com Trovo che i pesci, i crostacei, i polpi e i molluschi si trovino, nell'inconscio collettivo, nel punto più basso della considerazione umana. Se, infatti, sulla condizione e la sofferenza degli altri animali se non altro si discute, riconoscendo che il problema esiste, pare invece che la capacità dei pesci e delle altre creature marine di provare dolore resti un tabù.
Tempo fa mi è capitato di leggere che solo piuttosto di recente si è appurato che un'aragosta soffre quando viene bollita viva. Lo ha scoperto uno scienziato. Mi sono chiesta: ci voleva la scienza per giungere a questa conclusione? Le aragoste, gli astici, i granchi, non sono forse esseri viventi? Perché mai non dovrebbero provare il dolore fisico? Forse che il loro aspetto preistorico, vagamente alieno, li rende invulnerabili? Magari fosse così. Probabilmente preferiamo pensare questo, piuttosto che rivedere pratiche crudeli come bollire una creatura viva, in nome di discutibili tradizioni culinarie. Pensare che non soffrano mette a tacere la nostra coscienza, una volta di più. Ho letto una volta su una rivista di cucina un articolo che mirava proprio a tranquillizzare i lettori sulla questione delle aragoste, dicendo in sostanza che non sentono nulla e che le possiamo bollire in tutta tranquillità. Penso che l'autore di quell'articolo non sarebbe stato contento di essere calato in una pentola d'acqua bollente, ma evidentemente secondo lui per un' aragosta è praticamente normale.
L'altra sera ho visto in TV la pubblicità di un locale specializzato in pesce. Nello spot si sottolineava che pesci, crostacei e molluschi sono sempre freschissimi, spesso ancora vivi. Pronti per essere bolliti o fatti a pezzi. La maggior parte della gente non andrebbe in un ristorante sapendo che vi troverà dei vitellini o dei capretti o dei maiali vivi che verranno uccisi e cucinati sotto i loro occhi (il che è un'ipocrisia, dato che mangiamo comunque questi animali, purché vengano ammazzati lontano dai nostri occhi, ma questo è ancora un altro discorso). Invece la gente non prova alcuna ritrosia se si tratta di pesci e simili.
E' una triste normalità anche vedere aragoste e granchi vivi tenuti negli acquari di ristoranti e supermercati. Le poche volte che sono passata davanti a questi acquari e ho visto quei poveri animali con le chele legate, lì in attesa di essere uccisi in quel modo orribile, ho sentito sempre un moto d'orrore nel cuore.
I pesci, e gli altri abitanti del mare, sembrano dunque essere più che mai associati all'idea di cibo. Io stessa ammetto di mangiare ancora del tonno, qualche volta, e del salmone, pur sapendo che é altrettanto orribile che mangiare la carne degli altri animali. E ammetto anche che devo ancora fare un certo sforzo per associare alle scatolette di tonno o di sardine, o ai bastoncini di merluzzo surgelato, l'idea dei pesci vivi che quel cibo era prima.
I figli del mare e dei fiumi meritano la nostra curiosità e il nostro rispetto, non certo la crudeltà e la noncuranza con cui poniamo fine alle loro vite. Quelle vite spesso misteriose di chi é abituato a nuotare sotto le onde o a camminare con le sue zampette coriacee su fondali sabbiosi, tra conchiglie e alghe ondeggianti. Vite intrise di meraviglioso, che sembrano giunte fino a noi da un tempo molto remoto.
Cerchiamo di guardarli finalmente da un punto di vista nuovo. Io sono sulla strada...

domenica 16 ottobre 2011

Contrapporsi all'orrore, due storie a lieto fine

Nel mare di orrori in cui scompaiono milioni di animali, ogni tanto capita per fortuna di imbattersi in qualche storia a lieto fine, eccezioni che dovrebbero essere la regola.
Vi voglio raccontare, a questo proposito, di due mucche, una svizzera e l'altra italiana.
Qualche anno fa, la televisione svizzera dedicò un piccolo servizio alla vicenda di una mucca, che, dopo una lunga e onorata carriera, durante la quale si era anche aggiudicata dei premi per la sua notevole produzione di buon latte, giunto il momento della pensione è stata sistemata in una fattoria adagiata tra verdi colline, con le alte montagne sullo sfondo, insomma, un luogo che pareva uscito da un libro di fiabe, il classico paesaggio montano svizzero da cartolina. In questa fattoria la nostra mucca vive la sua vecchiaia in totale relax e comfort, comprensivo anche di una piacevole spazzolata mattutina alla sua frangetta beige, somministrata da uno dei fattori. Vedendo la beatitudine in quei pacifici occhi nocciola, mentre l'uomo le passava delicatamente la spazzola sul capo, ho pensato che tutte le mucche da latte meriterebbero una bella pensione, proprio come dei lavoratori dopo molti anni di servizio. Questi animali non meritano forse la nostra gratitudine per averci fornito il latte con cui fare la nostra colazione ogni mattina o con cui preparare svariate ricette? Non sarebbe una bella cosa prevedere dei luoghi di riposo per tutti loro, in montagna, dove trasferirli a fine carriera? Stessa cosa per le galline ovaiole, le quali, invece che gratitudine per tutte le uova che ci forniscono, vengono nella maggior parte dei casi soppresse quando la loro produttività non è più all'altezza dello standard industriale, e che ancora troppo spesso vivono la loro breve vita ne terribili allevamenti batteria, in gabbie con una superficie di un foglio A4.
L'altra storia a lieto fine riguarda una mucca italiana, battezzata Teresa, di cui avrete forse letto. Teresa era fuggita dal suo allevamento vicino a Messina nel maggio scorso e aveva tentato di attraversare a nuoto lo stretto. Soccorsa, la mucca fu riportata al suo allevamento e riconsegnata al suo destino di animale da macello. Per sua fortuna c'è stata una grande mobilitazione da parte dell'Enpa e di numerosi cittadini rimasti colpiti dalla voglia di libertà di Teresa, e l'interessamento di tutte queste persone ha fatto sì che la mucca sia stata ceduta ad una fattoria didattica del Messinese, dove potrà vivere per il resto dei suoi giorni, tra l'altro con il suo vitellino che ad oggi dovrebbe ormai essere nato.
Come dicevo all'inizio di questo post, storie come queste non dovrebbero essere l'eccezione, bensì la regola. Queste vicende devono farci riflettere sul fatto che se lo vogliamo possiamo cambiare il destino degli animali, e che loro non aspettano altro che gli esseri umani tendano finalmente una mano.
Teresa e quella mucca svizzera non sono mucche eccezionali in sé. O meglio, forse é più giusto dire che tutte le mucche sono creature eccezionali e meritevoli di attenzioni come loro due, soltanto che alla maggior parte di questi animali non viene data alcuna possibilità.
Che queste isole felici che emergono dal mare d'orrore in cui si perdono tante vite animali ci facciano riflettere, e ci facciano comprendere che un altro tipo di rapporto uomo-animale è assolutamente possibile. Affinché storie come queste che ho riportato divengano la regola, e l'orrore l'eccezione.

Come dovrebbero vivere

sabato 15 ottobre 2011

Sulla sperimentazione animale

La sperimentazione animale é un esempio lampante del nostro antropocentrismo. Forti della nostra convinzione di essere al di sopra di ogni altra specie, e che tutto possa essere piegato ai nostri bisogni, non ci facciamo scrupolo di utilizzare gli animali per testare farmaci e terapie, o sostanze da impiegare nell'industria cosmetica, o in molti prodotti di uso quotidiano.
Ci sentiamo autorizzati a farlo, dal momento che gli animali, nella comune concezione antropocentrica, sono in fondo poco più che oggetti creati per nostro uso e consumo, certamente esseri inferiori.
La prima volta che venni a sapere dell'esistenza di queste pratiche (che, da amante degli animali quale sono sempre stata, non avrei mai potuto immaginare) avevo circa nove anni. Mi trovavo a scuola, e la maestra ci aveva portati in biblioteca per un'ora di lettura. Io stavo appunto leggendo, il libro era La Notte dei Desideri, di Michael Ende, e ad un certo punto mi imbattei in una parola sconosciuta: vivisezione.
Andai dalla maestra a chiedere che cosa significasse e con mio grande orrore lei mi spiegò di che si trattava, in sostanza il sezionare animali vivi per vedere come erano fatti, e, in senso più tristemente moderno, utilizzarli per testare medicinali. Io le chiesi: "Ma non succede più, oggi, vero?"
Naturalmente lei dovette rispondermi che succedeva ancora.
Me ne tornai al mio posto piuttosto sconvolta. Che si potesse fare questo ad un animale mi sembrava pazzesco e di una crudeltà quale non avevo mai incontrato fino ad allora. Purtroppo, crescendo, avrei appreso molte altre cose di pari orrore riguardo allo sfruttamento animale.
Da allora penso spesso ai poveri animali rinchiusi nei laboratori di ricerca. Avendo sempre avuto roditori, e conoscendo quindi bene l'indole pacifica e spesso timida di questi amici pelosi, trovo particolarmente ripugnante che dei ricercatori accecati dalla fede nella scienza possano praticare su di loro praticamente qualsiasi cosa.
Per molto tempo si è detto che la sperimentazione animale è necessaria, perché grazie ad essa la scienza progredisce e vengono trovate nuove cure da trasferire all'uomo. Il sacrificio di milioni di vite animali, questo a quanto pare era assolutamente irrilevante, un fatto marginale e niente più.
Oggi se non altro molti movimenti portano avanti la causa dell'abolizione della vivisezione, una pratica inutile e obsoleta, tenuta in vita da grandi interessi economici e da una crudele abitudine, ma soprattutto una pratica assolutamente non etica. Quale diritto abbiamo, infatti, di sacrificare delle vite facendoci forti del fatto che si tratta di creature non umane? E' giusto che venga versato del sangue perché altri ne possano, forse, beneficiare? E ancora, è accettabile l'idea di procurare dolore, malattie indotte, e, nella maggior parte dei casi, morte, come se gli animali non provassero la sofferenza fisica e psichica proprio come la patiamo noi? Tutto questo deriva da una profonda incapacità di empatia, derivata, come dicevo più sopra, dal nostro immenso senso di superiorità e dal conseguente disprezzo verso creature altre.
A me invece capita di pensare, e se ci fossi io al posto di quegli animali? Se ci fossi io immobilizzata su un lettino di metallo mentre qualcuno mi inietta strane sostanze o pratica tagli nella mia pelle, o mi versa liquidi brucianti negli occhi, e altre cose orribili? Dev'essere spaventoso. Spaventoso e incomprensibile. Voglio riportare, a questo proposito, un testo toccante tratto da un episodio di Dylan Dog (che come forse saprete non è solo un indagatore dell'incubo, ma anche un animalista e un vegetariano convinto), La Collina dei Conigli. In questa storia, che ha come sfondo il tema della vivisezione, si racconta di un gruppo di conigli che ritornano dalla morte per vendicarsi dei loro aguzzini. Nel testo che segue è Dylan a parlare, ma si fa portavoce delle sofferenze di quegli animali perduti


"Il fatto è che certe notti quelle visioni ritornano. 
A volte sogno che mi aprono il cervello e ci ficcano dentro degli elettrodi. Il perché non lo so, ma è un test, e dicono che questo giustifica tutto. Altre volte mi tengono le palpebre spalancate, e versano collirio nei miei occhi fino a che non me li sento in fiamme. Vorrei urlare, ma spalanco la bocca e non ne esce alcun suono, perché hanno reciso le mie corde vocali. Altre volte sogno che mi fracassano le ossa una ad una, e dopo mi fanno ingoiare delle pillole. Così sperimentano gli antidolorifici.
In una altro sogno mi procurano delle ustioni per testare dei farmaci. In un altro ancora mi iniettano delle sostanze che accartocciano la mia pelle ricoprendola di rughe...E poi mi provocano un tumore che cresce fino a diventare più grande della mia testa, e mi mantengono in vita per studiarlo.
Ma il vero incubo arriva al risveglio, quando il sogno svanisce e la paura rimane. E forse non è nemmeno la paura la cosa peggiore, ma la rabbia tremenda che mi invade le viscere come se volesse farmi esplodere... E mi sento sempre più uguale ad un animale e sempre meno simile a un uomo... allora chiudo gli occhi e mi sforzo di immaginare un tunnel caldo e sicuro nel grembo della terra, che corre insinuandosi fra intrichi di radici e mi porta lontano...verso la luce e il calore del sole, in un luogo dove il vento fa frusciare i fili d'erba...Lontano dalla paura e dal dolore, dalla crudeltà senza senso di quegli esseri che si dicono umani"  Dylan Dog n. 263, La Collina dei Conigli, testi Michele Medda


Green Hill, un orrore legalizzato

Proprio in queste ore si sta svolgendo una protesta a Montichiari, Brescia, contro una vera e propria fabbrica di animali, la Green Hill. Questa azienda si occupa di allevare beagles destinati ai laboratori di vivisezione di tutta Europa. Vi invito a cliccare su questo link per approfondire la questione: www.fermaregreenhill.net
Allevare cani, o qualsiasi altro animale del resto, dovrebbe essere prima di tutto un atto d'amore. Vederli venire al mondo, prendersi cura di loro, volergli bene, e garantire loro una vita serena. Cosi dovrebbero andare le cose. I beagles di Green Hill invece vengono fatti nascere unicamente per essere destinati alla sofferenza e spesso alla morte nei laboratori di ricerca. Sono semplicemente una merce, degli oggetti da cui ricavare un profitto. Mi chiedo quale coscienza abbiano i proprietari di Green Hill, e tutte le persone che avrebbero la facoltà di chiudere questo infame luogo, ma non lo fanno.
Quando penso al cane beagle, mi viene sempre in mente Snoopy, il mitico bracchetto dei Peanuts, pieno di inventiva, di gioia di vivere, e di un pizzico di follia. Una volta ho letto che queste sono tutte qualità presenti nel beagle in carne ed ossa a cui Snoopy era ispirato. Che si chiuda Green Hill, che venga dato un futuro sereno a questi cani, perché possano vivere felici come il piccolo Snoopy, o come il beagle che abita da qualche parte nel mio quartiere e che ogni mattina incontro mentre passeggia scodinzolante e vivace accanto al suo padrone. Senza luoghi d'orrore come Green Hill questo nostro mondo sarebbe un poco migliore.

mercoledì 12 ottobre 2011

I viaggi della morte

Ricordo una mattina presto di qualche anno fa, ero in viaggio in autostrada. Era ancora buio, la nebbia serpeggiava oltre i guardrail, avvolgendo nelle sue spire biancastre palazzi di periferia, campi, grigie zone industriali. Qua e là occhieggiavano lampioni aranciati, reduci della notte. L'autostrada era già parecchio trafficata, soprattutto c'erano molti camion. Seduta sul sedile passeggeri, guardavo dal finestrino, lasciando scorrere lo sguardo sulle fiancate dei tir che sorpassavamo. Ricordo che nella mente avevo la melodia di una canzone.
Poi l'auto ha sorpassato un camion che trasportava animali. Le parole della canzone si sono zittite nella mia mente. Mi sono ricordata di quando ero bambina e percorrevamo l'autostrada d'estate per andare in vacanza. Io temevo sempre di scorgere un camion adibito al trasporto di animali. Era una vista che mi metteva i brividi, intravedere quei poveri esseri dietro le orrende feritoie, nel caldo torrido dell'estate. Così cercavo di non guardare troppo bene, ma finivo sempre col farlo. Dopo, quando ormai il camion era lontano alle nostre spalle, continuavo a pensarci per molto tempo ancora e a rivedere quegli animali stipati, in balia del loro destino.
Diversi anni più tardi andai in gita a Roma con il coro del liceo. Durante il viaggio ci fermammo ad un autogrill e mentre ci dirigevamo al bar passammo accanto ad un camion parcheggiato. Il suo carico, dai grandi occhi smarriti, erano dei vitellini. Io e altre ragazze ci fermammo, incapaci di passare oltre come se nulla fosse. Li guardavo, quei vitelli, così vicini ora, non più solo sagome intraviste per qualche istante da un'auto in corsa. Quando il nostro pullman ripartì non feci che pensare a quegli animali. Ci pensavo ancora qualche ora dopo, mentre con i miei compagni mi accingevo a visitare Cinecittà. Pensavo a quanto meraviglioso sarebbe stato aver potuto salvare quei vitellini, per portarli in un luogo bellissimo e sicuro, dove sarebbero cresciuti e un giorno sarebbero morti di vecchiaia. Invece in quel momento probabilmente erano già stati uccisi.
Da allora, almeno fino a quell'alba di diversi anni dopo, mi è capitato di rado di vedere uno di quei camion, forse perché, a quanto so, viaggiano prevalentemente di mattino presto, o col buio. Forse per nascondersi nelle tenebre e alla nostra coscienza. Come se si sapesse che è qualcosa di indegno, da tenere celato il più possibile.
Ma ci penso, a quei camion che transitano ogni giorno e percorrono chilometri e chilometri, nel caldo torrido dell'estate o nel freddo pungente dell'inverno, avanzando inesorabili verso la destinazione finale, con il loro carico inerme. Mi capita di pensarci soprattutto prima di dormire, e sento una tristezza infinita nel cuore. E sempre torna il mio sogno, salvarli, portarli in un luogo tranquillo, tra prati di soffice erba verde circondati da alte montagne, un luogo senza sbarre, né dolore, né paura, ma solo pace e cielo azzurro e alberi per ripararsi dal sole e una stalla quando piove.
Quella mattina in autostrada, osservando con un brivido le sagome beige dietro le feritoie, mentre il cielo schiariva, ho pensato che quello era l'ultimo mattino di quegli animali, e ho sentito nel cuore lo stesso orrore che si impadroniva di me da bambina. Questa è una cosa orribile, pensavo già allora, una delle più orribili. E coloro che obiettano, in fondo sono solo animali, ci sono problemi ben più gravi al mondo, c'è tanta gente che soffre, io rispondo che questo non giustifica lo sfruttamento e le sofferenze inflitte a milioni di animali. I trasporti verso la morte, e la conseguente uccisione di milioni di animali, sono una vergogna per una società che si vuole evoluta e civile, e penso che ogni persona dotata di un minimo di sensibilità dovrebbe indignarsi per questo, e per la condizione di sofferenza, prigionia e morte che riserviamo a tanti esseri viventi.
Un biglietto di sola andata, una rappresentazione tragicamente efficace per descrivere il destino di tanti animali
(tratto da Compassion in World Farming)

martedì 11 ottobre 2011

Noi e gli animali, tra amore e sfruttamento

Viviamo in un mondo pieno di contraddizioni, in cui spesso si utilizzano due pesi e due misure. Poco da stupirsi, dunque, se questo metodo viene applicato anche agli animali.
Se da un lato possiamo dire, forse con un po' di ottimismo, che la sensibilità nei loro confronti è aumentata (voglio pensare che sempre più persone si interessano alla questione animale e non restano pertanto indifferenti all'ingiustizia e alla sofferenza che ancora circonda le altre specie), d'altro canto bisogna purtroppo riconoscere che finché gli animali verranno distinti, nell'inconscio collettivo, tra animali d'affezione e animali da reddito, la strada da percorrere è ancora lunga.
Analizziamo un momento le implicazioni di questa divisione. Innanzitutto, è ovvio, si vuole operare una netta distinzione tra le due categorie. Se ne evince che da una parte ci sono gli animali da amare, che vivono accanto a noi, trattati con ogni riguardo, veri e propri componenti della nostra famiglia e compagni di vita, la cui morte sarà per noi un profondo dolore. Dall'altra parte, schiere di animali da reddito, che come dice questa fredda parola, sono da considerare a nostro uso e consumo, destinati ad essere esclusi da qualsiasi rapporto affettivo con l'uomo. Macchine da carne, da latte o da uova, nel peggiore dei casi rinchiusi nei terribili allevamenti lager a condurre una vita miserevole e innaturale di massimo sfruttamento, in attesa di essere uccisi. Migliaia di bovini, maiali, ovini, polli, conigli, tenuti segregati lontano dagli occhi del mondo, in modo che la nostra coscienza possa continuare a dormire.
Stesso discorso per tutti quegli animali che hanno la sventura di essere destinati ai laboratori di ricerca. Cani (beagles, soprattutto, a causa del loro perfetto sistema circolatorio), gatti, roditori, conigli, ma anche scimmie e parecchie altre specie a seconda della necessità. Nel nostro linguaggio queste creature perdute vengono chiamate genericamente cavie. Come se non fossero più esseri senzienti, come se, chiamandoli in un altro modo, asettico e freddo, si potesse giustificare il fatto di praticare su di loro qualsiasi esperimento, riducendoli a oggetti su cui applicare protocolli e da cui acquisire dati.
Fuori, oltre le asettiche pareti del laboratorio, vivono cani scodinzolanti che vengono portati a passeggio mattino e sera, gatti rimpinzati di squisiti croccantini, conigli domestici liberi di scorrazzare per la casa. C'è tutta un'industria dedicata al benessere dei nostri amici pelosi, a volte anche un po' esagerata: cibi speciali, cucce, giocattoli, persino abitini. E poi veterinari che si prodigano per curare le loro malattie o per porre dolcemente fine alle loro sofferenze quando non c'è più nulla da fare.
La nostra schizofrenia umana, però, lascia che in parallelo continui a prosperare la vergognosa industria degli animali da laboratorio e che migliaia di rappresentanti di quelle stesse specie tanto amate come pet, vengano sacrificati senza scrupoli sull'altare della ricerca.
Gli animali vengono dunque divisi arbitrariamente  tra compagni di vita ed esseri da sfruttare senza alcuna compassione, come se nella nostra mente ci fossero due etichette, una di serie A e una di serie B, da applicare a seconda dei casi.
Gli animali di serie B li teniamo rinchiusi, in modo che si pensi a loro il meno possibile, che ci si dimentichi perfino che dietro a tanti prodotti c'è la sofferenza e la morte di esseri viventi.
Occhio non vede, cuore non duole, insomma. Perché il giorno che li conoscessimo un po' più da vicino, e ci rendessimo conto di qualcosa che in realtà, credo, la maggior parte di noi ha sempre saputo, ovvero che questi animali da reddito, o queste cavie, non sono affatto differenti, se non per il loro bagaglio di sofferenza, dall'amato cane di casa, e che come lui hanno una personalità e un'anima, che per quanto ignorata e calpestata vive dentro di loro, in attesa di un essere umano che abbia voglia di scoprirla e che tenda una mano, bé, allora quelle parole, reddito e cavie, suonerebbero pazzesche e crudeli, e tutto questo assurdo ordine che vede noi umani al di sopra di ogni altra creatura sarebbe scosso dalle fondamenta e crollerebbe, almeno nella mente di qualsiasi persona che non sia un mostro.

domenica 9 ottobre 2011

A proposito di Dodo, e degli altri animali che ho avuto con me

Penso agli animali che ho avuto con me nel corso degli anni. Criceti, porcellini d'India, un topolino, gerbilli, un coniglio. Piccoli grandi amici, ognuno con il proprio carattere e il proprio modo di rapportarsi con me. Li porto nei miei ricordi, come piccole gemme dall'aspetto semplice, ma colme di luce.
Ho pianto per ognuno di loro, quando la loro vita si è conclusa. Lacrime di tristezza, ma anche di gratitudine per averli avuti vicini per un tratto del cammino, per esserci voluti bene, io nel mio modo umano, loro alla loro maniera di roditori.
Ora riposano nel nostro giardino, sotto l'aiuola fiorita e sotto all'ibisco dagli splendidi fiori. Li ho amati tutti, ma confesso che alcuni rimangono più luminosi nei miei pensieri. Il porcellino d'India Dostojevski, detto Dodo, che era così dolce e buffo in tutto ciò che faceva, al quale, d'estate, facevo il bagno in terrazza, in una piccola tinozza, per ripulire una buona volta il suo lungo pelo. Il topolino Vanja, portato in casa probabilmente dal nostro gatto e trovato sotto alla cassetta della legna vicino alla stufa, un esserino beige piccolo piccolo e indifeso, al punto che decidemmo di tenerlo, almeno per un po'. Lui gradì talmente la nuova vita nella bella gabbia spaziosa, che rimase con noi, finché, un anno dopo il suo ritrovamento sotto alla cassetta della legna, si addormentò per sempre nel tronchetto bucherellato che aveva eletto a sua dimora.
E poi Fernando, battezzato così in omaggio al pilota automobilistico Alonso, un cricetino russo delizioso, fragile e dolce, la tenerezza fattasi animale. Lui, così minuscolo, lasciò un vuoto grandissimo quando morì all'improvviso, discreto com'era vissuto. E poi Idgie, una porcellina d'India color champagne, dolcissima, con un occhio cieco che le dava qualche problema di equilibrio quando si sollevava sulle zampe posteriori per appoggiarsi al parapetto della gabbia per chiedere da mangiare.
Ma anche tutti gli altri, l'introverso coniglio Puskin, i vivaci allegri gerbilli che scorrazzavano curiosi nella mia stanza e mi si arrampicavano fiduciosi lungo il braccio, la criceta Ardid dal lungo pelo, che nella vecchiaia era diventato tutto grigio, gli altri porcellini d'India, creature pacifiche e perennemente affamate.
Io non so se esista qualcosa oltre questa vita, ma se esistesse, tra coloro che vorrei ritrovare ci sono questi piccoli amici, e so che sarei felice di poterli prendere tra le mani di nuovo, delicatamente, e di porre un piccolo bacio sulle loro testoline pelose.
Fernando

sabato 8 ottobre 2011

Lo specismo del linguaggio

Ammazzato come un cane
Trattati come bestie
Sgozzato come un maiale
Schiacciati come topi
Carne da macello

Tutte espressioni impiegate per descrivere episodi particolarmente barbari e disdicevoli quando ad essere coinvolti sono degli esseri umani. Espressioni che mi hanno sempre dato da pensare, fin da bambina. Mi chiedevo, già allora, com'è che se un essere umano viene trattato in modo indegno, viene sottoposto a terribili stenti e patisce molte sofferenze, se gli viene tagliata la gola o viene mandato a morire senza alcuna remora, tutti siamo concordi (giustamente) nel dire che sono cose terribili e inaccettabili, mentre se riguardano degli animali sembra quasi che sia normale, come tutto ciò fosse in un certo qual modo parte del loro destino?
Ho sempre avvertito una profonda ingiustizia in questo, perché credo che ogni essere vivente meriti rispetto e che ogni esistenza, umana o animale che sia, abbia valore e non vada perciò calpestata, strappata via, o trattata come cosa di poco conto. Le espressioni che ho citato sono uno dei tanti modi con cui si manifesta l'antropocentrismo, quel nostro porci al di sopra delle altre creature come fosse scontato, il normale corso delle cose.
Io invece sarei felice di vedere il giorno in cui questa concezione lasciasse il posto ad una nuova, in cui le prevaricazioni sulle altre specie cessassero, e i nostri occhi vedessero finalmente gli animali, tutti gli animali, non come esseri inferiori, sfruttabili e sacrificabili, ma come creature meravigliose, da rispettare, proteggere, di cui essere amici e a cui riservare protezione e carezze, anziché sofferenze e morte. 
Un tempo in cui espressioni come quelle da me riportate non venissero usate più, e fossero ricordate con un brivido, a rammentarci di quando la sofferenza degli animali era per noi talmente ineluttabile da essere penetrata persino nel nostro linguaggio.
In attesa di quel giorno, milioni di animali continuano a vivere reclusi e sfruttati, o comunque destinati ad essere uccisi. A milioni muoiono per finire sulle nostre tavole, o impiegati nella ricerca scientifica, o ancora sacrificati in nome di antiche barbare tradizioni. Un massacro silenzioso, perpetrato giorno dopo giorno, lontano dai nostri occhi, perché la coscienza possa continuare a dormire. 
Ma se, in un futuro luminoso, tutto questo sarà alle nostre spalle, ci si chiederà, come abbiamo potuto permettere che ciò avvenisse? Come abbiamo potuto lasciare che milioni di vite si consumassero in prigionia e si perdessero nell'indifferenza? Come è stato possibile che la sofferenza di tanti esseri viventi ci abbia lasciato dormire tranquilli, come se non ci riguardasse?
Domande che dovremmo porci anche, e soprattutto, oggi, perché una delle cose peggiori è l'abitudine all'ingiustizia e alla barbarie, contro chiunque siano perpetrate.
Cerchiamo di avere almeno un pensiero per quegli animali, e anche solo un piccolo gesto, che, nel nostro piccolo, ci possa contrapporre alla comune indifferenza. Se vogliamo dirci davvero umani, dobbiamo loro almeno questo.

Perché questo blog

Da bambina amavo immaginare di fare parte di un'organizzazione segreta che si occupava di salvare gli animali prigionieri dei laboratori o degli allevamenti lager, o comunque vittime della crudeltà dell'uomo. Fantasticavo di agguati ai camion che portano gli animali al macello, di missioni negli allevamenti per portare in salvo tutte le povere creature là rinchiuse, o ancora di tori sottratti alle torture dell'arena.
Soprattutto immaginavo come mi sarei presa cura di loro, dell'affetto con cui avrei lenito la loro paura, e di come a poco a poco quegli animali che avevano conosciuto solo stenti e sofferenza e freddezza avrebbero cominciato ad assaporare la vita, lasciandosi l'orrore alle spalle.
Nella mente avevo costruito un rifugio bellissimo, nascosto tra le Alpi, un luogo tranquillo fatto di pendii di morbida erba, di quel verde che si vede solo in alta montagna, e belle stalle pulite, e il vento profumato di fiori ad accarezzare quei corpi che tanto avevano sofferto e che erano sempre stati rinchiusi.
Allora avevo solo una vaga idea delle sofferenze degli animali, più che altro intuivo che cose terribili accadessero loro in luoghi tenuti nascosti, e avevo un brivido ogni volta che, per andare a trovare i miei nonni, passavamo in auto nei pressi del macello di Mendrisio.
Crescendo, ho inevitabilmente appreso dettagli terribili sulla sorte di migliaia e migliaia di animali, e delle loro vite condannate a perdersi nell'indifferenza. L'orrore da astratto si è fatto più concreto, e ha aumentato l'empatia che da sempre provavo nei confronti di quelle sventurate creature.
Il mio sogno di bambina, quell'alpe verdeggiante e sicuro dove accogliere e curare tanti animali salvati dall'orrore della zootecnica, o della sperimentazione scientifica e cosmetica, o semplicemente dalla ferocia e dal senso di onnipotenza dell'uomo, quel sogno è ancora lì. E come mi consolava allora, un poco riesce a consolarmi anche oggi. Così come la speranza che prima o poi ci renderemo conto che la crudeltà, e la mancanza di empatia e compassione, sono alla base non soltanto delle sofferenze di molti animali, ma anche delle nostre, e che anche noi umani beneficeremmo dell'affermarsi di un senso di fratellanza che va al di là delle razze e delle specie.
Con questo blog desidero condividere le mie idee con persone che provano le mie stesse impressioni, ma anche, nel mio piccolo, portare ad una riflessione coloro che considerano la questione animale un problema assolutamente secondario, da liquidare con la tipica frase  "in fondo sono solo animali".
Persone ben più intelligenti di me hanno avuto e hanno a cuore la condizione degli animali, ritenendola un argomento molto serio su cui riflettere. Io spero di dare a mio modo un contributo, anche se minuscolo.
Dedico questo blog a tutti gli animali oppressi e sfruttati, trattati come oggetti. A tutti quegli animali la cui anima viene calpestata e a cui non é mai stata riservata una carezza, o un gesto compassionevole.
Questo blog é per loro, e per tutti gli umani che decidono di non fare l'abitudine all'indifferenza e alla barbarie.